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ALIMENTAZIONE
L'assunzione di cibo e di bevande, che incide
sullo sviluppo fisico degli animali e in particolare dell'uomo. Per milioni
di anni gli ominidi si nutrirono di piccoli mammiferi, rettili e insetti;
in seguito impararono a uccidere animali di taglia maggiore. La dieta
dell'uomo di Pechino consisteva per il 70 per cento in carne di
cervo; egli fu probabilmente il primo a far uso del fuoco.
LA RIVOLUZIONE NEOLITICA. L'Homo sapiens comparve circa
ottantamila anni prima di Cristo; le sue tecniche di caccia erano notevolmente
sviluppate, tali da assicurargli razioni giornaliere di oltre un chilogrammo
di carne. Intorno al 25.000 a.C. l'uomo praticava, oltre alla caccia,
la pesca, servendosi di rudimentali armi; le donne provvedevano alla raccolta
di vegetali commestibili. In Europa e in Asia radici, bacche, frutti,
funghi, germogli e semi (in particolare delle graminacee) integravano
e, in caso di necessità, sostituivano la carne. La rivoluzione
neolitica consistette nel passaggio dall'alimentazione basata sui
prodotti della caccia, della pesca e della raccolta a quella basata sull'agricoltura
e sull'allevamento. L'uomo apprese innanzi tutto a tostare i cereali,
poi a macinarli grossolanamente e a ricavarne polente, infine a panificarli.
I primi animali domestici furono le pecore e le capre (che fornivano,
oltre alla carne e al latte, anche il vello); seguirono i maiali e da
ultimo i bovini. Quando in Mesopotamia sbocciò la civiltà
sumerica l'uomo aveva alle spalle settemila anni di agricoltura: i cereali,
e non più la carne, erano la base della sua dieta. Gli alimenti
più diffusi erano l'orzo, il frumento e il miglio, seguiti da ceci,
lenticchie, rape, cetrioli e lattuga; importante era anche il pesce, di
cui i fiumi mesopotamici abbondavano. La carne bovina era riservata alle
classi superiori; meno ristretto era il consumo di quella ovina, soprattutto
di montone. I sumeri conoscevano la birra e ne facevano largo uso: si
calcola che il quaranta per cento dei cereali servisse per la produzione
della bevanda. Il pasto abituale consisteva in schiacciate d'orzo non
lievitate accompagnate da cipolle e, più di rado, da pesci e annaffiate
da birra. A scoprire il lievito e a produrre il primo pane lievitato furono
gli egizi. La dieta base dei contadini dell'Egitto dinastico non divergeva
da quella dei contadini mesopotamici ed era formata da pane, cipolla e
birra. Ben più ricca e varia era la mensa dei ricchi, che comprendeva
carne bovina e d'antilope, uccelli (piccioni, quaglie, gazze), pesce,
formaggio, dolci. Finché la Grecia fu scarsamente popolata, le
risorse dell'agricoltura e della pastorizia furono sufficienti per tutti,
ma già intorno al 650 a.C. il limitato terreno coltivabile, supersfruttato
da secoli, dava raccolti modesti. Un'importante risorsa, ampiamente esportata,
era l'olio d'oliva, richiesto, oltre che per l'alimentazione, per l'illuminazione
e la produzione di unguenti. I vini greci, spesso speziati e resinati,
dominavano il mercato; solo alle soglie dell'età volgare furono
soppiantati da quelli italici. La dieta dei più si restringeva
a pane e farinate d'orzo, formaggio, olive e fichi; si beveva latte di
capra o vino diluito con acqua. La carne ovina e suina e la cacciagione
erano riservate ai benestanti.
FORTI DIFFERENZE SOCIALI. Fin dal VI secolo a.C. la città
di Roma ebbe seri problemi di approvvigionamento e fu travagliata da carestie
ricorrenti, ma solo nel 123 a.C., per iniziativa di Caio Gracco, si cominciò
a vendere il grano a prezzo politico; in seguito lo si distribuì
gratuitamente ai poveri. Al tempo di Augusto un terzo (circa centomila
persone) degli abitanti di Roma era assistito dall'annona. L'enorme quantità
di frumento necessaria per sfamare la città, stimabile in cinque
milioni di ettolitri all'anno, era in gran parte importata dall'Egitto
e dall'Africa settentrionale. Il vitto dei romani di bassa condizione
consisteva in pane nero e polenta di miglio, con ceci, olive e pesce salato.
La mensa dei più ricchi era straordinariamente assortita e opulenta;
durante l'età imperiale imperversò la moda dei cibi esotici
e stravaganti (cervella di pavone, lingue di fenicottero e lattigini di
murena in una lista tramandata da Svetonio); nella cucina, altrettanto
esuberante e artificiosa, dominavano le spezie e il garum, l'onnipresente
salsa di pesce fermentato. Il vitto del Medioevo barbarico e dell'alto
Medioevo, quanto meno in tempi normali, fu meno povero e monotono di quanto
generalmente si creda: polli, maiali e cacciagione entravano nella dieta
di molti contadini. L'aratro a vomere (introdotto intorno al VI secolo),
il collare rigido applicato agli animali da tiro e la rotazione delle
colture su tre campi consentirono di produrre più cibo e di qualità
migliore; la scarsità di frumento obbligava per altro a confezionare
il pane nero d'uso quotidiano con cereali inferiori (innanzi tutto orzo
e segale) e, talora, farina di piselli e fave. Elettivamente carnea era
l'alimentazione della nobiltà feudale, per la quale i vegetali
erano non solo poco appetibili, ma indizio di insufficiente ardore guerriero
e dunque di scarsa virilità. La relativa abbondanza ebbe termine
nel IX secolo: la segale cornuta (resa tossica da un fungo) e la ruggine
del frumento innescarono un lungo e duro ciclo di carestie. Nel XII secolo,
con l'espansione delle popolazioni germaniche nelle terre slave si aprì
per l'Europa un nuovo e generoso granaio, che consentì di rifornire
le città (cresciute di numero e d'importanza dopo il Mille) e di
praticare l'allevamento in luoghi precedentemente coltivati a cereali.
Un effetto delle crociate e del conseguente incontro con la cultura alimentare
e gastronomica araba fu la richiesta crescente di spezie orientali e zucchero;
la domanda di spezie si mantenne altissima fino a tutto il XVII secolo
(Venezia, da sola, importava 2500 tonnellate annue di pepe e altrettante
di spezie diverse). Dall'America arrivarono alimenti più importanti
delle spezie, benché queste fossero state l'obiettivo originale
della spedizione di Colombo. La diffusione delle piante americane sul
suolo europeo fu relativamente lenta: la patata cominciò a essere
coltivata alla fine del XVI secolo e il mais nel XVII. Gli alimenti del
nuovo mondo furono, se non il solo, il principale fattore della "rivoluzione
alimentare" che ebbe origine nel Seicento, decollò nel Settecento
ed esplose nell'Ottocento. Patate e mais posero progressivamente fine
alle carestie endemiche e furono alla base dell'esplosione demografica
del XVIII e XIX secolo: la popolazione europea, fino ad allora sostanzialmente
stabile, triplicò nel giro di centocinquant'anni. Dall'inizio dell'Ottocento
il bilancio alimentare divenne sempre più tributario dell'industria
e della politica sanitaria. La prima potenziò produzione e offerta,
provocando eccedenze nei paesi occidentali e marcati squilibri nel terzo
mondo; la seconda si fece carico del fabbisogno collettivo e del controllo
dei cibi. Negli ultimi decenni del XX secolo si creò così
un forte divario tra paesi industrializzati o in via di sviluppo, affetti
da patologie d'ipernutrizione, e paesi dalle popolazioni affamate; eccedenze
e aiuti divennero politicamente strategici. In tale contesto si innestarono
gli sviluppi della ricerca su ambiente e materie prime (biotecnologie),
sulla struttura del prodotto e la sua conservazione (scienze alimentari),
sull'habitus nutritivo e la forma fisica (dietetica). Mentre le
grandi burocrazie dell'assistenza organizzarono palliativi alla disomogeneità,
persisteva una situazione nella quale il diritto al cibo, nelle aree povere,
non era che una debole speranza di vita, mentre forti squilibri caratterizzavano
i paesi in fase di industrializzazione e una segmentazione crescente dei
consumatori, creata dall'offerta esuberante, le aree ricche.
P. Meldini

F. Braudel, Le strutture del quotidiano, in Civiltà materiale,
economia e capitalismo, I, Einaudi, Torino 1982; R. Tannahill, Storia
del cibo, Rizzoli, Milano 1987; M. Montanari, Alimentazione e cultura
nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1988; M. Harris, Buono da mangiare,
Einaudi, Torino 1990. |
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